Quando un bambino sbaglia, che cosa si fa? Lo si corregge. Ma se si ha per le mani un bambino arrogante, che ti sfianca col suo caratteraccio, uno di quelli che sanno tutto loro, compiaciuto perfino degli errori perché sono suoi? Alla fine lo si lascia sbagliare, per non sprecare troppa energia. Imparerà a sue spese.
Così è per l’asilo mariuccia della politica italiana. Però ci sono un paio di cose che vanno dette, visto che nessuno si prende la briga di dirle. Lasciando perdere, volutamente, i massimi sistemi.
Uno. La scuola. Non è questione di fondi che mancano. La scuola italiana è ormai fuori da ogni logica. Sono oltre settant’anni che non si fa il tagliando ai programmi, per vedere se certe cose che vengono insegnate valgano ancora la pena. Si continua ad andare avanti con la pia illusione che la matematica serva a diventare più intelligenti, la musica a predisporre all’armonia, la filosofia ad aprire la mente, per non parlare del greco e del latino, i più apriscatole di tutti. Peggio che il pongo, la nostra mente… Si continua, insomma, a voler credere che l’uomo nasca tabula rasa e sia poi compito delle circostanze e delle pedagogie formarlo. Ovvero farlo diventare santo o diavolo, intelligente o cretino. C’è un esempio divertente da citare: il Liceo classico Tito Livio di Padova mena gran vanto di essere stato “il liceo di Giorgio Napolitano”. Ebbene, è stato anche il liceo di Giorgio Freda, e se ha formato il primo ha formato anche il secondo, sennò non ha formato né l’uno né l’altro, formati dai loro genitori, dalla loro razza, dai loro demoni, dal loro dio, dal cavolo, dalla cicogna – e da nessun altro.
C’è una verità insopportabilissima da digerire: che l’uomo, come nasce, così muore: invariato, costante. Lo disse già Eraclito, antropologo insuperato: “Fatale il carattere per l’uomo”, o, parafrasato altrimenti, “Il carattere dell’uomo è il suo destino.” Lì dobbiamo tornare, altro che il Parmenide severiniano. Paradossalmente (ma non troppo), c’è molta più verità nella millenaria astrologia che nella mondana psicanalisi, che inventa voragini di traumi dove ci sono solo sfumature caratteriali innate. Provate un ‘marte in ariete’ per credere.
La scuola, quindi. Oggi è uno scherzo faticoso che ti ruba quasi vent’anni di vita. E alla fine dovrai cominciare praticamente da zero. Per impadronirsi delle tecniche del lavoro vale più uno stage di sei mesi che tutti e cinque gli anni delle superiori, persi a mandare a memoria quintali di minuzie che nessuno ricorderà più nella sua vita, se non con odio-orrore-ribrezzo. In quegli anni importantissimi, però, hai imparato a pensare – ti dicono. Ah, sì? Imparando i verbi irregolari greci e la data dello schiaffo di Anagni? I logaritmi e le ossidoriduzioni? Quanti cuori ha un lombrico e dove e quando era nato il poeta Metastasio? La differenza tra le rocce metamorfiche e le sedimentarie? O si è già prima oltre quello stadio del pensiero, o sono guai seri.
Fino a qualche decennio fa c’era l’alibi che il mondo fosse una robaccia perché la scolarizzazione era parziale. Ma adesso tutti vanno a scuola; tra poco anche i cani. Eppure il mondo è peggio che mai. Non conosce altro che la smania assoluta di denaro, motore immobile di tutto quanto succede, e l’unico fastidioso problemino rimasto: la paura di crepare, sulla quale allunga le grinfie il corpo agonizzante della Chiesa. I giovani si sono imbottiti la testa di cifre e segmenti e accettano questo stato di cose con una docilità che definire bovina è poco. Non sanno tirare fuori non dico un pensiero, ma un istinto, di quelli sani, vigorosi, robusti. Perché è anche vero che la scuola, se non forma, può deformare. Può intontire, instupidire, confondere. Potrebbe ispirare, confortare, addestrare, e non lo fa. Già tanto se ti sbarazzi al momento dell’ingresso all’università di certe materie che per te sono il peggio del peggio. Perché anche lì, se, metti, vuoi lavorare nell’editoria, imparare a usare le parole e a comporre testi decenti, dovrai studiare sia geografia che glottologia. E, naturalmente, letteratura latina. Anche se tu vuoi scrivere in perfetto italiano. Magari il perfetto italiano di oggi, non quello di Dante (pur maravigliosissimo) o di Fogazzaro. Contiamo quanto tempo si dedica, alle superiori, al Trecento o all’Ottocento e quanto al Novecento. Il Novecento si fa di volata, come uno starnuto. E il Duemila non esiste.
Allora: perché non invertire la rotta, cominciando dal Duemila e risalendo all’indietro? Non vorremo mica raccontarci che i programmi progressivi di oggi sono tali per rispetto del passato, per venerazione dei maggiori? Questo nostro mondo li odia, i suoi maggiori, gli uomini esemplari, non gli vanno proprio giù. E’ solo per inerzia che si continua a studiare dal vecchio al nuovo: un residuo (secco, di sicuro, e si spera non riciclabile).
Lo stesso vale per tutte le altre tecniche e tutti gli altri saperi. Bisogna affondare le mani nei programmi e riscriverli completamente. Sennò si costringono i ragazzi a buttare vent’anni di vita. L’unica fortuna in cui si può sperare, nella scuola com’è oggi – ma come salvagente, zattera da naufraghi –, è trovare insegnanti illuminati, che ti usino un occhio di riguardo ed evitino di bocciarti se non sai dove e quando è nato Metastasio. E magari diventino loro, sì, paradigmi cui guardare. Però esseri del genere non circolano in gran numero.
Ce n’è uno solo dei bambini cattivi di Montecitorio e di Palazzo Madama ecc., che abbia voluto mettere in rilievo il problema drammatico di una scuola scaduta da decenni? Uno che abbia pensato di rispondere con orgoglio ai cortei autunnali di lagna degli studenti mostrando una foto dei loro gabinetti, di solito ridotti a fogne a cielo aperto, e rimandandoli alla risoluzione dei veri problemi degli istituti educativi italiani? Zero. E saranno tutti laureati…
13 gennaio 2013