Su Giorgio Locchi (di Giovanni Damiano)

 

A chi non c’è più ma che resterà sempre con me

 

 

Prima di entrare in argomento, una precisazione, credo, necessaria: questo breve scritto non ha la benché minima pretesa di esaminare per intero la ricca e originale opera di Giorgio Locchi, uno dei pochissimi autori ‘non-conformisti’ di cui davvero non si può non essere debitori; tutt’al contrario, l’intenzione che giustifica queste assai sommarie riflessioni è unicamente quella d’individuare, in via di prima approssimazione sia chiaro, la ‘struttura fondamentale’ del pensiero di Locchi.

Tale ‘struttura fondamentale’ a mio avviso non coincide né con una filosofia dell’essere, incentrata sul sempre-identico-a-se-stesso e sul già-dato-una-volta-per-tutte, né con una filosofia del divenire, il cui esito necessario non può non essere quello di relegare il passato nella ‘preistoria’, o, peggio, di consegnarlo al ‘nulla’ dell’irreversibile già-stato, in quanto processo unitario che travolge ogni cosa (tranne il suo stesso divenire) nel suo infermabile procedere (ecco perché per questa filosofia la tradizione, nel senso letterale del termine, è al contempo necessaria e irrilevante). Né tantomeno quella di Locchi è una filosofia post-moderna (in fondo, una variante ‘ludica’ della filosofia del divenire), tutta imperniata sulla incessante costruzione/manipolazione della ‘realtà’ (che in quanto totalmente costruita/manipolata smette appunto di essere realtà – da qui le virgolette – per diventare semplice artificio). Detto in altro modo ancora, la filosofia locchiana non si risolve nella mera immanenza (si tenga presente sia il sovraumanismo, cioè l’umano che sopravanza, trascendendolo, il mero umanesimo, sia l’irruzione sempre possibile dell’origine che ‘spacca’ il piano storico), ma neppure si rifugia in inviolabili trascendenze metafisiche. Anzi, il suo punto di forza sta proprio e innanzitutto nel fare i conti col ‘seppellimento’ della metafisica senza per questo ‘precipitare’ in una delle tante filosofie dell’immanenza.

Piuttosto, quella di Locchi è una filosofia dell’evento dell’origine[1], dove però è il destino storico dell’origine ad essere ‘appeso’ al destino storico dell’evento. Perciò l’origine non è in alcun modo l’Origine, quest’ultima intesa come perenne fons et origo, come archeo-logia data-una-volta-per-tutte. Al contrario, l’origine come inizio, inizia sempre e daccapo, anzi può iniziare sempre e daccapo, solo eventualmente, solo grazie al darsi dell’evento. Soltanto così l’inizio e-viene, può e-venire. Nell’adesso dell’evento, in cui tutti i tempi (passato-presente-futuro) si concentrano e convergono, l’origine inizia e può iniziare di nuovo, può cioè conoscere un nuovo inizio. L’evento è infatti la confluenza dei tempi, essendo l’istante in cui la ‘linearità’ del tempo viene sconvolta (ma ciò vale anche per la ‘circolarità’ del tempo, essendo il circolo ‘misura’ al cui interno la distensio temporis rimane lineare) per lasciar-essere (dunque liberamente) l’origine. Quindi l’evento è massimamente libero, ac-cade nella e dalla libertà. Nessuna necessità, insomma, lo ‘governa’.

D’altra parte, l’origine è sì un che di dato (altrimenti cadremmo nel post-moderno), ma, come già detto, non una volta per tutte, in quanto l’apertura storica in cui ac-cade l’evento fa sì che dell’origine si dia (si possa dare) sempre un nuovo inizio, cioè qualcosa appunto di storicamente condizionato. In breve, l’origine assume volti e nomi sempre nuovi pur senza smettere mai di essere origine che (eventualmente) re-inizia, essendo la sua identità non la scialba vuotezza di ciò che è mera uniformità sempre uguale a se stessa[2], ma la capacità (potenza) di differenziarsi in virtù del suo destino storico o, per dirla altrimenti (ma è dire la medesima ‘cosa’), della sua ‘natura’ destinale[3].

Eppure, proprio perché ‘appesa’ all’evento, l’origine può conoscere l’abbuiamento, l’eclissi momentanea o persino il definitivo tramonto. Si tratta di un punto della massima importanza perché da un lato, nella lotta tra compossibili non può essere negata un’evenienza del genere (il tramonto senza più aurore); dall’altro, una tale evenienza taciterebbe una volta per tutte la possibilità dell’evento di ri-manifestare l’origine e quindi ‘congelerebbe’, alla lettera, la storia, decretandone la fine, perché una storia impossibilitata ad essere ‘sorpresa’ (la libertà) da una nuova irruzione dell’origine altro non sarebbe che stanca e astratta riproposizione del medesimo, un divenire mai più scosso da possibili conflitti o ‘agguati’.

Alla luce di quanto detto, in ogni caso non si dà, perché non può darsi, un rassicurante destino dell’origine, immune da ogni deriva ‘negativa’. È la libertà dell’evento a esigere questo prezzo. Ed è la tragicità dell’origine ciò di cui qui si parla, il dilemma incomponibile che da sempre l’accompagna, che ne segna ‘drammaticamente’ la storia.

Da qui quella che Locchi chiama “teoria aperta della storia”[4], in cui passato, presente e futuro s’incrociano e dove soprattutto la storia diventa il ‘regno’ dei compossibili e quindi del conflitto tra opposte tendenze epocali (ri-generazione dell’origine o suo velamento).

Ma in tutto ciò che ne è dell’uomo e della sua libertà? Il ruolo dell’uomo è solo passivo? L’uomo è un semplice spettatore di una storia di trionfi o catastrofi che in ogni caso non lo riguarda perché nulla vi può? No. Senza ovviamente cadere nel volontarismo (laico o cristiano che sia), l’uomo ha in sorte il compito più gravoso, del quale dispone liberamente attraverso un’altrettanto libera decisione. Può rammemorare l’origine, in tal modo mantenendo aperto uno spazio per la sua possibile ‘epifania’, sì che si possa nuovamente dare il suo evento, oppure combatterla, e così favorire la vittoria della tendenza opposta. È questo il crinale sul quale si deciderà il nostro destino, affinché il più lontano passato sia ancora in grado di essere il nostro più grande avvenire.

 

Giovanni Damiano

 

 

 

 


[1] Origine che per Locchi non ha nulla a che fare con pre-istoriche, vaghe e oscure provenienze ‘metafisiche’, bensì con l’arcaico mondo indoeuropeo; sull’argomento cfr. G. Locchi, Prospettive indoeuropee, Settimo Sigillo, Roma 2010 e gli altri suoi scritti “Il mito cosmogonico degli indoeuropei” e “Dumézil e gli indoeuropei” contenuti in Id., Definizioni, SEB, Milano 2006, rispettivamente pp. 69-85 e 159-171.

[2] Vedi al riguardo M. Heidegger, Identità e differenza, Adelphi, Milano 2009, in particolare p. 29.

[3] “Il giusto concetto di identità intende l’originaria coappartenenza del diverso nell’uno, il quale uno è contemporaneamente anche il fondamento della possibilità del diverso” (M. Heidegger, Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana, Guida, Napoli 1994, p. 143). Identità e differenza stanno insomma in reciproca, costitutiva relazione, appunto coappartenendosi. Pertanto la ‘natura’ dell’origine non è alcunché di ‘naturale’ (nel senso di fissità chiusa a ogni differenza) ma consiste nella sua ‘destinalità’, cioè nel suo essere storicamente aperta all’evento.

[4] Cfr. G. Locchi, Nietzsche, Wagner e il mito sovrumanista, Akropolis-L.E.D.E., Roma 1982, pp. 56-59. Ma si tenga  ben presente tutta la prima parte di quest’opera per la quale una volta tanto il termine fondamentale non è né retorico né inappropriato.