Diciamoci la verità: in fondo siamo dei viziati, degli incontentabili, troppo ben abituati per renderci conto di quante sorprese, stimoli, prospettive inaudite ci offra questo mondo di oggi. Siamo così abituati, come playboy di lungo corso, che nemmeno riusciamo più a eccitarci. Viviamo in un romanzo e non lo sappiamo.
Io ho avuto l’illuminazione qualche giorno fa e da allora sono eccitata come una lettrice di Harmony, mi sento in un libro di Bradbury o Lovecraft e mi chiedo come andrà a finire.
Gli ingredienti ci sono tutti: grandi masse di persone, nuove ideologie dal fascino straniero, alieni, mutanti, sollevazioni, gruppi di difensori della normalità, i media che condizionano, una tragedia imminente e il senso che ai buoni non sarà facile spuntarla.
La storia credo la sappiate un po’ tutti. Nei ruggenti anni settanta, dopo i divertimenti del decennio precedente e i viaggi esteri e interni d’ogni genere, tra una capanna indiana e un tatuaggio psichedelico, nel Nord America agitato nascono in seno alle minoranze femministe le teorie dei gender studies, o studi di genere, che, dopo qualche elucubrazione, approdano alla conclusione che un conto è il sesso, che ci viene dato da Madre Natura e dal nostro corredo genetico, un conto il genere, che proviene dai condizionamenti ambientali e dalla realtà che ci circonda. Secondo la stessa teoria, l’educazione del futuro ha il compito di lasciare al bimbo la completa libertà di scegliere, a prescindere dal pisellino o dalla farfallina, quello che più gli piace, e perciò nessuno gli dovrà mai dire che cos’è, finché il fantolino non lo scoprirà da solo. Bene. Gli anni settanta sono stati un decennio sicuramente divertente; ci sono state le lotte di piazza, è uscito ‘The dark side of the moon’ dei Pink Floyd, suonano i Led Zeppelin, al cinema proiettano Guerre Stellari, si inviano sonde nello spazio, si diffondono i gruppi di yoga, si scopa come ricci, si prova un po’ tutto il provabile e talvolta ci si rimane, si preparano i ruggenti anni ottanta con il loro corredino di siringhe e fantasia. Anch’io mi gingillo spesso leggendo i resoconti di quegli anni come vecchi libri d’avventura e passo in rassegna le teorie psicologiche e politiche che trovo stimolanti e ispiratrici, grandi prove della capacità immaginativa dell’essere umano. Però dopo torno alla realtà, non mi è mai venuto in mente di provare quel famoso fungo allunga-vita o di rifugiarmi nel cyberspazio. Invece, la cosa strana è che la teorie dei gender ha preso piede e, di più, sta marciando spedita. Nella mitteleuropea Trieste, dove tutto arriva prima rispetto al resto del mondo, negli asili (che adesso si chiamano scuole d’infanzia) qualche tempo fa hanno pensato di proporre dei laboratori psicologici di superamento del genere, sotto il nome di ‘Gioco del rispetto’, in cui fanciulli e fanciulle sono stati educati a scambiarsi i vestitini per sperimentare che cosa si prova in un caso e nell’altro e, scoperta dell’acqua calda, ad ascoltare il battito del proprio cuore dopo una corsa che, come si sa, è uguale tra maschio e femmina. Non a caso a Trieste c’è il più alto numero di suicidi in Italia, ho pensato. Tira un’aria un po’ così. Piove. Fa freddo. C’è la bora.
Ma anche in molte altre città italiane, Venezia, Verona, Milano, Roma, nelle scuole si propongono temi simili, si pubblicano e si diffondono libri dalle illustrazioni molto carine e dalle trame molto spiazzanti, che raccontano degli idilli familiari del bimbo con due papà, oppure spiegano, passo dopo passo, i vari tipi di famiglie esistenti – single, etero, gay e adottive e così via. Il caro vecchio Altan, quello che ha fatto crescere generazioni di ragazzi e ragazze sopra i pallini rossi della sua Pimpa e il berretto dell’Armando, si è dato da fare e ha disegnato un nuovo personaggio, un uovo bianco candido, Piccolo Uovo, che ancora non sa se sarà maschio o femmina, sta in copertina a gambe larghe con la tuba nera in testa e i tacchi a spillo rosa e intanto viaggia, tra famiglia e famiglia, per farsi un’idea su quale preferirà adottare. Sui giornali, fioccano interviste a persone che hanno cambiato sesso e che vengono presentati al pubblico come nuovi eroi, gente capace di vero coraggio e sopportazione – un tempo c’erano i volontari di guerra e le madri di quindici figli, oggi i transgender. Intellettuali raffinati come Mariapia Veladiano, che di mestiere fa anche la preside, si slanciano in interventi tra il filosofico e il paraculo:
“Quel che la scuola davvero fa, e deve, è combattere gli stereotipi di genere. Ma essere contro questi stereotipi non significa dire che il genere non esiste. Significa educare a vedere dove sta la trappola di un sé condizionato da precomprensioni che autolimitano non solo le scelte ma il pensiero stesso, il desiderio. Per cui le bambine nemmeno sognano di diventare astronaute perché la loro educazione, implicita o esplicita, ha beneducato anche i desideri. La consapevolezza degli stereotipi di genere è una conquista lenta, lo stereotipo vive di un’inerzia sociale naturale ed è funzionale al vantaggio o al potere di qualcuno. E al potere il nemico serve. Ci sono poteri che si squagliano se vien meno il nemico. E anche alla paura il nemico serve. La saldatura tra potere e paura è micidiale. Il gender è una manna. Ogni giorno un po’ e lo sdegno è servito, il nemico è servito, il pensiero è congelato e si sente meno la paura per quel che non si capisce.”
Ci si solleva in un’onda di indignazione se i sindaci o i comitati di genitori protestano e fanno ritirare dalle biblioteche scolastiche i libretti sopra descritti. Poi accendi per caso la radio e becchi l’intervento di un genitore che racconta l’aneddoto fresco fresco: un bel giorno il figlio torna a casa da scuola e chiede a mamma e papà: “Ma io sono maschio, femmina o gay?”
Sui social network si sfottono i genitori del family-day, si condividono all’impazzata articoli dal titolo tipo: “L’unica famiglia naturale è composta da due antifascisti”, si protesta giustamente contro gli ogm ma non contro chi pensa di modificare se stesso e sotto il grande ombrello deIla libertà e dei diritti si fa finire un po’ tutto, anche le assurdità.
Il genere è la nuova bestia nera, tempo qualche annetto e non si potrà più studiare la logica aristotelica, con la sua definizione da elaborare attraverso genere prossimo e differenza specifica.
Io sono la prima a non avere simpatia per i pregiudizi e le chiusure. Credo nella libertà di scelta dell’essere umano – a lui le conseguenze. Il punto è che allora non mi sembra giusto trascurare le minoranze. Non è una vera crudeltà sbattere in galera il ladro che ha svaligiato la banca, visto che il suo gesto partiva da un desiderio, e cercare di curare nelle cliniche i bulimici e gli alcolizzati (non sono forse desideri anche i loro? Non si sta alterando, dall’esterno, qualcosa che ha a che fare con la loro natura? Che cosa c’è di non istintivo in loro, vivaddio!)?. Insomma, anche tu, anche tu che leggi, se ci stai a pensare più a fondo, ti verrà sicuramente qualche grillo per la testa. Ti farai molte domande. Amletiche prima: sono maschio, sono femmina, ma, perché no, sono singolare, sono plurale. (Credo che per molte persone sarebbe un vero sollievo dichiararsi plurali, e anche un gesto di sincerità: è solo una parte di me, caro, che parla, poi c’è quella melanconica, quella isterica, quella un po’ pantofolaia, quella di donna in carriera…) E ancora: sono uomo o animale o dio? – questa, da riservare agli esperti. Infine, se dalle domande più filosofico-spirituali passerai a quelle più ordinarie finirai anche per domandarti perché diavolo non puoi andartene a Roma a prendere possesso di un pezzettino della Galleria Borghese, per esempio. Io mi accontento del ‘Ratto di Proserpina’ o dell’’Apollo e Dafne’; vi giuro che è un desiderio fresco, puro, incondizionato, non me l’ha inculcato nessuno, né la scuola, né lo stato, né i miei genitori, ho capito che è proprio mio, mio e basta, è un desiderio chiaro e tondo, per cui mollate subito le chiavi sennò comincio a inquietarmi, ho dalla mia la giustizia sociale, come sarebbe a dire che non si può, protesto per il rispetto dei miei diritti, attenzione!, è un’indecenza, bisogna organizzare una manifestazione!
Come? Non si può proprio?
Allora, ultima proposta: mi è venuta in mente una soluzione. Diciamo che possiamo trovare un accordo economico, come indennizzo. Mi accontento dei 200 milioni di euro all’anno che il governo, in questo bel tempo di crisi, stanzia per le operazioni dei transessuali (gli stessi che si lamentano perché non ritengono adeguate le strutture presenti sul territorio). Poi, visto che penso saremo in tanti ad avere lo stesso desiderio artistico, come è giusto, direi che potremmo dividerceli. Be’, penso che potremmo proprio raggiungere un accordo, sì.
3/07/2015
Silvia Valerio