“Per me, se possibile, al sangue.”
“Io invece ben cotta.”
“Thanks a lot, thank you, mister President.”
Avete visto (ma certo, le avrete viste senz’altro, intasano ogni giornale, e se poi siete internauti vi sarete guardati l’intera collezione) le deliziose istantanee del barbecue di stato in Inghilterra. Con David e Barack che cucinano vicini vicini, con le maniche della camicia rimboccate. Ma no, non è il rinfresco di un matrimonio gay, che pensate! Ci sono anche le graziosissime lei dei lui, Samantha e Michelle. L’atmosfera è piuttosto quella di un pic-nic tra amici.
“Ma sai che è proprio squisita ‘sta salsiccia!”
“Io quasi quasi mi faccio il bis.”
“Ahahahahah…” (risatina gorgogliante alla Claudia Koll in Così fan tutte, solo un po’ meno puttanesca.)
Pagina 16 dei massimi quotidiani italiani, mica scherzi. Eppure, pure Federico Rampini ha un moto di pudore e quando, in chiusa al dettagliato reportage, commenta: “quasi come persone qualunque”, sottolinea il “quasi”.
La beffa del marketing. La perversa, atroce beffa del marketing. La menzogna diventata una istituzione e una regola. La prova che l’intelligenza non è virtù da cercare, oggi. La confutazione in atto di ogni ‘cosa in sé’, la benedizione ecumenica di tutto ciò che è artefatto, provvisorio, reticente, ruffiano, ipocrita, finto, o, nei casi migliori, rassegnato. La rete che imbriglia l’opinione pubblica e la porta di qua e di là, dove vuole; le fette di prosciutto davanti agli occhi globali. Il torbido che nasconde ogni luce e toglie l’abitudine stessa alla luce, l’esigenza di chiarezza, di schiettezza, di veracità, di ‘semplicità’ essenziale. Oggi tutto è marketing e nulla è, fuori dal marketing. Attraverso il marketing è arrivato a imporsi l’aggeggio più scemo che si potesse mai inventare con spreco di elettronica: l’i-pad. Il marketing può trasformare il profumo invecchiato in ‘vintage’. Il marketing decide delle sorti dei politici e quindi della politica. E se uno non è così sprovveduto da sodomizzare rischiosamente una servetta che poi se la canta, non cadrà mai nella polvere, se il marketing lo ha elevato un giorno. Opportuni intrallazzi e virtuose elusioni e agili compromessi te l’hanno dato (il potere) e guai a chi lo tocca. Non c’è patata sulla faccia della terra, un solo disperato tubero superstite, che possa fare fortuna perché è buona e basta, a prescindere dalla sua sensibilità per il mercato. I virtuali annientano i virtuosi.
Fin qui cose note, trite e ritrite, scontate, banali.
Il grottesco è che a questo sistema onnipervasivo di stordimento di ogni istinto naturale si accompagna la lusinga più sfrontata e seducente di tutte, l’incoraggiamento all’espressione dei propri gusti, delle proprie preferenze, delle proprie opinioni (già alterate e condizionate prima che si formino come tali). E la gente ci casca. A frotte. A nugoli. A cascate. Un ticchettio globale, senza esitazioni. Un cicaleccio triste, in scala minore. Commenta, diventa protagonista, dicci la tua: ecco i refrain della ninna nanna diffusa nell’etere a ogni ora del giorno (e a volume doppio la notte). Su dormi, cretino/ che il mondo ha da fare…
Siamo in democrazia, dicono, liberi fraterni e uguali, eppure è il cartellone pubblicitario a decidere chi governa e chi no, anzi, la quantità dei cartelloni pubblicitari, lo slogan, il taglio di quella foto, la copertina del settimanale, le pagine occupate sulla stampa e i minuti di tivvù estorti, la camicia portata così oppure cosà, la posa di piglio con mano sotto il mento e le sneakers abbinate al vestito armani. La finta meglio congegnata. La montatura degli occhiali. Il barbecue.
Tutto è finta.
“Ancora un po’ di sale, a me piacciono i sapori forti.”
Non resta che mangiare. E infatti…
26/05/2011