- Professor Damiano, Lei nel 2006 ha pubblicato per le Edizioni di Ar il libro L’espansionismo americano. Un “destino manifesto”? Ritiene che la sua analisi sulle caratteristiche radicali dell’espansionismo americano possa costituire uno strumento utile a comprendere meglio i recenti fatti di cronaca internazionale?
Credo di sì, perché a me sembra che il contesto internazionale versi, oggi come allora, nella medesima condizione, nel senso che ci troviamo ancora nella fase di transizione (quindi intrinsecamente costituente) aperta dal crollo dell’ordine bipolare. Una fase che gli Stati Uniti stanno ovviamente tentando di piegare a loro vantaggio, in modo da raggiungere una egemonia a livello planetario non più sfidabile e quindi capace di tradursi in un vero e proprio definitivo ordine mondiale a guida americana.
- Cambiando l’ordine degli addendi dell’affermazione da Lei riportata nel prologo di L’espansionismo americano, ritiene che la causa dell’umanità coincida con quella dell’America?
No, non lo ritengo affatto, e a dire la verità non mi è neanche molto chiaro in cosa consista realmente la ‘causa dell’umanità’… Tuttavia non si può non riconoscere agli Stati Uniti la capacità di essersi dati sin dall’inizio un respiro mondiale, e di aver identificato se stessi – in un processo autorappresentativo ancor oggi in atto – più che con l’umanità, con il popolo-guida dell’umanità, che è cosa ben diversa.
- E con quella dell’Europa?
Sicuramente (ma sto semplificando all’estremo) anche gli illuministi e dopo di loro i rivoluzionari francesi hanno coltivato questa idea. Direi però che quando l’Europa si è pensata in tal modo ha tradito se stessa, ha tradito cioè il suo essere terra della differenza. Anzi, io credo che solo differenziandosi da ogni progetto universalistico, solo prendendone decisamente le distanze, l’Europa potrà davvero contribuire a dar vita a un’altra modernità, per riprendere il titolo del mio ultimo testo Per un’altra modernità. Scritti su Evola, appena uscito sempre per le Ar.
- Quali sviluppi intravede per l’espansionismo americano nell’attuale situazione internazionale?
Lo scenario internazionale in una fase di transizione è, per definizione, in continuo mutamento, quindi azzardare previsioni è sempre un esercizio assai rischioso. Ad esempio, mentre l’aggressione alla Libia ha ribadito il ruolo egemonico degli USA e della sua appendice Nato, così come la ricerca (riuscita) del pretesto ‘umanitario’ per intervenire militarmente contro Gheddafi, al contrario la crisi siriana, se da un lato sembra confermare la prassi americana di infrangere il diritto internazionale con i soliti appigli ‘umanitari’ e la parallela trasformazione del nemico in criminale, dall’altro sta forse facendo emergere per la prima volta dalla caduta del Muro un attore internazionale (la Russia di Putin) in grado di ricoprire un ruolo strategico alternativo a quello americano e dunque di avere la forza di incidere in maniera sostanziale sullo scacchiere internazionale. Quindi sviluppi non molto positivi per gli Stati Uniti, ma al momento siamo ancora nel campo delle impressioni.
Lettera di Francesco Ingravalle:
“Apprezzo molto l’intervista a Giovanni Damiano, come, a suo tempo, avevo apprezzato molto il volume L’espansionismo americano. Purtroppo non sono un ‘anglo-americanista’ e il mio parere è semplicemente quello del lettore medio. Ma, sforzandomi di fare il politologo, chiedo: quale potrebbe essere il soggetto storico concreto in grado di fare dell’Europa la “terra della differenza”? E’ una domanda che dura all’orizzonte, senza risposta, dai tempi di Jean Thiriart e di Adriano Romualdi.”
Risposta di Giovanni Damiano a Francesco Ingravalle:
“Francesco Ingravalle, in risposta a una intervista fattami recentemente dalle Ar in relazione al mio testo L’espansionismo americano. Un “destino manifesto”?, si chiede “quale potrebbe essere il soggetto storico concreto in grado di fare dell’Europa la ‘terra della differenza’”, aggiungendo che tale domanda “dura all’orizzonte, senza risposta, dai tempi di Jean Thiriart e di Adriano Romualdi”.
Indubbiamente, la questione sollevata da Ingravalle è d’immensa portata storica e di straordinaria complessità. Sarebbe pertanto davvero assurdo pensare di poter dare in questa occasione una risposta anche lontanamente esaustiva. Ragion per cui, mi accontenterò d’indicare giusto qualche spunto di riflessione che possa perlomeno valere come un ‘segnavia’ per successive ricerche.
A me pare che il presupposto essenziale dell’Europa come terra della differenza sia evitare qualsivoglia reductio ad unum. Di conseguenza l’Europa così intesa mai potrà tollerare ogni ‘costituzione’ imperiale, ogni tracotante dominio dell’Uno. A parte il caso romano (che considero davvero ‘in ordine’ solo fino alla nascita della monarchia militare dei Severi, ma è ovvio che il punto meriterebbe ben altra discussione), tutti i successivi tentativi imperiali (dall’impero ‘davidico’ dei Carolingi ai disastri napoleonici) hanno rappresentato nient’altro che la negazione dell’Europa, che ha invece vissuto la sua ‘età dell’oro’ (nessuna idealizzazione però, sia chiaro!) in coincidenza con quello che Schmitt ha chiamato jus publicum europaeum e Hedley Bull “società internazionale europea”, cioè, grosso modo, dalla pace di Westfalia (1648) alla prima guerra mondiale, tranne la parentesi rivoluzione francese-periodo napoleonico.
Ecco perché Thiriart in fondo non poteva dare risposte, perché la sua proposta era in realtà la fine dell’Europa come ‘terra della differenza’; caso diverso Romualdi, a mio parere più interessato, a ragione, a ricostruire la genealogia (plurale) del nostro continente europeo, i suoi molteplici e stratificati percorsi.
Ed ecco perché se esistesse il soggetto storico concreto capace di unificare l’Europa, esso ne sancirebbe in realtà l’ennesimo ‘tramonto’.
Piuttosto, un soggetto storico europeo ‘consonante’ con la visione dell’Europa come terra della differenza sarà quello che, lungi dal vagheggiare sogni ‘imperiali’, si farà portatore di un nuovo pluriverso, di un nuovo nomos rispettoso delle differenze e contrario a qualsivoglia unipolarismo. Se poi mi si chiedesse quale sia tale soggetto storico, la mia risposta sarebbe “non lo so”; se invece mi si chiedesse quale potrebbe essere, risponderei, senza soverchie esitazioni, “la Russia di Vladimir Putin”.”
Seconda lettera di Francesco Ingravalle:
“Avrei qualche osservazione da fare alle efficaci argomentazioni (che sostanzialmente mi paiono assai condivisibili) del prof. Damiano. Spero di non abusare della vostra pazienza.
A mio avviso, circa il problema-Europa ci troviamo di fronte a due esigenze contraddittorie: da un lato occorre ridurre la complessità per ragioni politiche e amministrative di governo del territorio; dall’altro occorre coordinare le differenze senza sforzarsi di distruggerle. Da un lato l’amministrazione esige omogeneità; dall’altro la realtà – per effetto di un processo già studiato da Simmel in “La differenziazione sociale”- si configura come interazione fra diversità sempre più accentuate, anche per effetto dei flussi migratori. Ho usato il verbo “occorrere” e preciso che è la realtà sociale e politica oggettiva che lo impone: il processo di integrazione economica, giuridica e amministrativa che si sta svolgendo da sessant’anni ha potenziato sia l’omogeneizzazione, sia la differenziazione (soprattutto sul piano etico: tutela delle differenze di genere, delle minoranze: dal Trattato di Maastricht al Trattato di Lisbona) della realtà sociale amministrata.
La giurisprudenza dell’UE ha cercato di governare la contraddizione con il principio di sussidiarietà inteso come principio architettonico (cioè politico); tale principio è il cardine dei sistemi politici federali, degli Stati federali.
E’ mia opinione che sia inevitabile una progressiva ‘statizzazione’ dell’UE: troppo ‘pesante’ il suo ruolo commerciale e finanziario nel mondo perchè esso possa essere retto da un’organizzazione che è un tertium quid fra confederazione e federazione. Ma questo avverrà soltanto nel momento in cui gli stati non riusciranno più a gestire la politica estera per conto della (o non in opposizione alla) NATO. Allora, le linee geo-economiche che uniscono UE e USA obbligheranno gli Stati europei a una ulteriore cessione di sovranità, creando un blocco politico euro-statunitense. L’alternativa, come giustamente pensa Damiano,se comprendo bene, è l’Eurasia. In ambo i casi ci troveremmo di fronte al trionfo del capitalismo monopolistico a livello continentale, a una sorta di ‘inveramento’del processo ‘neo-keynesiano’ che ha portato allo sviluppo dell’integrazione europea e al progetto, ancora piuttosto nebuloso, della “economia sociale di mercato. Lo sviluppo del capitalismo monopolistico crea, come stiamo vedendo in particolare negli ultimi vent’anni, quei fenomeni di crisi cronica del capitalismo descritti con grande anticipo da Marx nel libro III del Capitale….e qui mi fermo, perchè sarebbe necessario un esperto in macroeconomia. Una cosa mi pare certa: o il capitalismo monopolistico trova un modo di realizzare un Welfare su scala continentale, oppure gli effetti dell’aumento dei poveri e dei cittadini di condizioni modeste un po’ovunque in Europa rischiano di creare una condizione di cronica turbolenza sociale. Ma la tecnocrazia europea ha la sensibilità sociale (e il senso del pericolo insito in un modello sociale in cui pochi ricchi governano una massa crescente di poveri) di Eduard Bernstein o, almeno, di John M. Keynes? Vedremo. Non mi pare che le cose cambierebbero in una prospettiva ‘euroasiatica’, date le condizioni ‘post-comuniste’ della società russa, data l’onnipotenza delle oligarchie capitalistiche dell’attuale Russia dove si rimpiange (a ragione) lo stato sociale sovietico (beninteso, a livello di piccola gente, di cittadini comuni). Anche in questo caso, si imporrebbe l’esigenza di un Welfare continentale. Uno Stato-continente vede compromessa la propria proiettività esterna – che le sue oligarchie politiche e le sue oligarchie economiche coltivano sempre non appena possono farlo – quando ha, al proprio interno, una situazione sociale instabile in conseguenzadi una eccessivamente ineguale distribuzione della ricchezza sociale prodotta dalle classi lavoratrici. Non a caso, la politica economica di Roosevelt, quella del fascismo italiano e quella del nazionalsocialismo tedesco, erano politiche di Welfare. Il Welfare è un ottimo collante fra classi dirigenti e classi subalterne. Lo abbiamo vista nell’Italia DC e poi nell’Italia del primo centro-sinistra. Sotto questo profilo, i problemi dello Stato-nazione (alta conflittualità sociale) mi sembrano essere analoghi ai problemi di un ipotetico Stato-continente. Se questo è vero, potrebbero essere analoghe anche le soluzioni (il Welfare). Vedremo come andranno le cose sul medio e lungo termine.”
Seconda risposta di Giovanni Damiano a Francesco Ingravalle:
“I molti e importanti problemi indicati da Ingravalle nella sua replica richiedono una risposta più articolata, per quanto, com’è ovvio, in ogni caso insufficiente. Anche perché si tratta di questioni di tale complessità da suscitare, dal mio punto di vista, più ulteriori domande che affrettate e presuntuose risposte.
Per prima cosa credo sia necessario chiarire un possibile equivoco: la mia posizione, pur essendo effettivamente alternativa a un blocco politico euro-statunitense, come giustamente notato da Ingravalle, non è però in alcun modo riconducibile a qualsivoglia declinazione della dottrina eurasiatica. Per quanto mi riguarda, ritengo la Russia un paese integralmente europeo con una mera appendice geografica asiatica. D’altronde, sia Schmitt sia Bull hanno considerato la Russia pienamente parte dello jus publicum europaeum e della ‘società internazionale europea’ senza nessuna concessione ad astratte ‘Eurasie’, che piuttosto, nel concreto, altro non significano che la perdita secca di ogni specificità dell’Europa ridotta a semplice propaggine dell’enorme massa continentale asiatica. Per cui, più che il tramonto dell’Europa come ‘terra della differenza’ con l’Eurasia si assisterebbe al tramonto dell’Europa tout court.
Concordo invece con il ruolo giocato dal principio di sussidiarietà nel tentare un difficile equilibrio tra le contraddittorie (giusto; non semplicemente opposte) esigenze di riduzione della complessità (con relativo aumento dell’omogeneizzazione) e di salvaguardia delle differenze. Mi sembra però di capire che per Ingravalle sia inevitabile non tanto un aumento della sussidiarietà quanto una decisa e progressiva ‘statizzazione’ dell’Unione Europea, cosa che, a mio parere, sarebbe comunque in controtendenza rispetto alle innumerevoli ‘profezie’ sulla ‘morte dello Stato’ oggi tanto in voga. Ma, e qui nel formulare la domanda ho ben presente l’Ingravalle studioso di Althusius, non si potrebbe pensare ad una ‘architettonica’ capace di tenere assieme le differenze senza per questo cadere in un sempre più pervasivo ‘centralismo’ statualistico, in uno Stato-continente (tutt’altra cosa anche dalla dottrina schmittiana del ‘grande spazio’) che potrebbe davvero sancire la fine dell’Europa come terra delle differenze?
Sul Welfare, come fondamentale strumento d’integrazione socio-politica, ovviamente concordo. Ma anche qui, un Welfare su scala europea (ma innanzitutto libero dal peso parassitario di buona parte dell’immigrazione extrauropea) deve per forza accompagnarsi a una costruzione statuale dello stesso ordine di grandezza (appunto uno Stato-continente)? Non sarebbero possibili soluzioni intermedie (una sorta di ‘Welfare di comunità (plurali)’, ma è un’idea ancora tutta da pensare), senza al contempo ‘precipitare’ in un’assenza di sovranità che renderebbe ogni tentativo fragile se non aleatorio e facilmente preda di poteri e ideologie globali?”