Fra il 1851 e il 1852 Marx ed Engels coniarono un’espressione che avrebbe avuto fortuna presso i critici, non solo marxisti, della democrazia borghese: “cretinismo parlamentare”. La caustica definizione che i due pensatori diedero di tale forma di cretinismo fu la seguente: “infermità che riempie gli sfortunati che ne sono vittime della convinzione solenne che tutto il mondo, la sua storia e il suo avvenire, sono retti e determinati dalla maggioranza dei voti di quel particolare consesso rappresentativo che ha l’onore di annoverarli tra i suoi membri, e che qualsiasi cosa accada fuori delle pareti di questo edificio (…) non conta nulla in confronto con gli eventi incommensurabili legati all’importante questione, qualunque essa sia, che in quel momento occupa l’attenzione dell’onorevole loro assemblea”.
Il 10 ottobre 1919, nel Saluto ai comunisti italiani, francesi e tedeschi, Lenin rilanciava il concetto marxiano bollando come “cretini parlamentari”, nonché come “mascalzoni, semplicioni, pedanti, cadaveri, abili ingannatori”, i riformisti che esigevano elezioni organizzate dalla borghesia.
In quello stesso anno un regius professor dell’Università di Oxford. Gilbert Murray (1866-1957), pubblicava un saggio su “Aristofane e il partito della guerra”, nel quale il grande poeta comico, avversario dei guerrafondai della democrazia ateniese e fautore della pace col regime aristocratico spartano, veniva insignito della qualifica nietzschiana di “buon Europeo”. La formula coniata da Marx e da Engels, e adottata in séguito da Lenin, venne ripresa dal grecista britannico per definire il sistema politico messo alla berlina da Aristofane: i Cavalieri, dei quali Murray pubblicò la traduzione nel 1956, furono da lui definiti “la satira immortale del cretinismo parlamentare”. (Claudio Mutti)